Le Streghe

Di fronte ai Numi, al tempo stesso affascinanti e terribili, l’uomo, da sempre, cerca di risolvere la sua complicata relazione con le realtà soprasensibili. Ed è nell’ambito di quell’ineludibile esigenza, intrinseca alla sua natura, che  può essere inquadrata la figura della Strega.

Nell’immaginario collettivo, infatti, la Strega viene quasi sempre simbolicamente concepita, come un’orrenda megera. Un essere malvagio, cioè, che passa il suo tempo, davanti ad un calderone ripieno di misture maleodoranti, nell’intento di preparare filtri, incantesimi ed inenarrabili malefici, con  il principale scopo di tentare di “imbrigliare” o soggiogare  le entità spirituali, al proprio volere.

Per associazione di idee, va da sé che la Strega sia direttamente accomunata alla “magia nera”. Il “nero”, essendo per antonomasia legato  alle tenebre o all’oscurità; in contrasto con il “bianco”  che è piuttosto assimilato alla Luce.

La Strega, quindi, nel contesto del medesimo immaginario, sarebbe colei che si oppone al “giusto sviluppo dell’umanità“ previsto nei piani divini, attraverso una serie di simbiosi malefiche con le figure, altrettanto allegoriche, di Satana, del Diavolo e/o dei Demoni.

Il termine Strega, deriva dal latino “strix, strigis” (uccello notturno), un   grosso volatile dalla grande testa, che sembra rassomigliasse ad un gufo o ad una civetta. Dal plurale di “strix“ prende origine la parola “Strega“: quella donna malefica, quindi, che si  trasformerebbe in uccello, per entrare, di notte, dentro le  abitazioni e fare del male ai bambini o, se si preferisce,  all’elemento  Luce della famiglia.

Si racconta che le streghe, grazie alle loro arti magiche, si trasformassero in animali come il gatto, la capra, il rospo, il serpente, la civetta. E questo, con l’unico intento di fare del male.

Di solito, preparavano degli strani unguenti o droghe a base di sangue, belladonna, mandragora, sambuco, cicuta virosa, in modo da provocare un offuscamento dell’apparato percettivo, ed eccitazione motoria. Per non parlare della “datura stramonium“, la cosiddetta erba del diavolo, che provocava schizofrenia e amnesia, nonché degli stati psichici alterati e delle inspiegabili allucinazioni.

 Nel corso delle loro “attività”, esse si beavano, con risa infernali, nel gettare malocchio agli esseri fortunati, o fare brutte fatture, oppure nell’avvelenare l’acqua, trasmettere disgrazie, preparare filtri di amore, o distruggere il raccolto.

Nella tradizione italiana, ma anche in quella europea, il “diavolo“, spesso identificato con la “strega“, ha rappresentato una delle grandi preoccupazioni del Medioevo. Quest’ultimo, infatti, nell’immaginario popolare, stava sempre in agguato, per impadronirsi dell’anima di qualche cristiano. Era il tentatore per eccellenza ed insidiava le donne, poiché queste ultime, essendo già legate all’occulto per natura, era molto più facile marchiarle con un “sigillum”. Da quel momento, quelle donne  diventavano streghe e avevano diritto a partecipare alla “festa del Sabba“: l’orgia con il diavolo, dove si ballava, si fornicava e si facevano banchetti, a base di rospi, di fegato di bambini non battezzati, di cadaveri e altre “prelibatezze“.

Le Streghe, partecipavano a quei raduni,  a cavallo di una scopa magica, ma appena il gallo cantava, le “spose di Satana“, colte dal Sole, si sentivano perse ed erano costrette a rientrare  dentro le loro case…

Ma davvero la Strega, rappresenta tutto questo?

La Strega, in realtà, è una figura molto più antica, rispetto a quella osteggiata e combattuta dal Cristianesimo.

Pensiamo alla Maga Circe, la splendida donna che ebbe a trasformare in porci i compagni d’Ulisse. Pensiamo a Medea, la donna di Giasone, o ancora alle Sirene o alle Sibille.  Quelle figure di donne, demonizzate nel tempo, furono essenza vitale e spirituale nel periodo pre-ellenico, in cui si officiava in armonia con la natura, il culto femminile della Grande Madre, che prevedeva una discendenza matrilineare.

Con l’invasione/migrazione degli Achei o Micenei nell’area mediterranea, a causa della loro organizzazione sociale patriarcale, simboli come quelli della maga Circe – che nelle Argonautiche (poema epico scritto da Apollonio Rodio, in un tempo mitico anteriore, rispetto alle vicende narrate da Omero)  era considerata la “più sublime figura di donna fra quante si stagliano agli albori della nostra storia” – divennero improvvisamente negativi. Come sottolinea Elèmire Zolla, “(…) nell’Odissea di Omero, se ne  manipolò il ricordo, come impose la civiltà patriarcale achea”, divenendo figura pericolosa e considerata “strega“ per eccellenza. Al contrario, Circe fu “l’esempio massimo che ci sia preservato di donna sacerdotale, capace di raggiungere ed impartire l’esperienza metafisica, come anche una folta schiera di altre figure sacerdotali di donne, che si possono argomentare dai testi che pur ci ha lasciato una civiltà come la greca, così avversa alle passate glorie iniziatiche femminili…Eroi (greci), che strapparono a molte dèe o sacerdotesse, i loro poteri, come per esempio Chirone e Giasone, ma suppongo anche Minosse e Teseo…”.

Alla stregua di Circe, anche la civetta, ora simbolo di sfortuna e maleficio, fu demonizzata, rappresentando il pretesto di screditare la Dea Athena,   poiché l’uccello, nel mondo arcaico, esprimeva la Sapienza. Era il simbolo dell’Angelo, vale a dire, degli “stati superiori“.

Anche le Sirene, concepite nel loro significato originario di uccello, con il loro canto divino e profetico, al pari delle Sibille, concedevano la Conoscenza: un sapere iniziatico e segreto, riservato solo a pochi uomini eletti.

Lo stesso dicasi del gatto – l’animale che più simboleggia la donna sapienziale (non dimentichiamo, infatti, che ha “sette vite“ ed altre virtù nascoste) – che venne accusato, col Cristianesimo, di essere uno spirito maligno.

Preoccupata di reprimere ogni forma di Paganesimo, la Chiesa insegnò che gli animali, già considerati sacri, erano in realtà dei demoni minori.

In Egitto al contrario, i gatti erano considerati sacri e perciò fatti oggetto di venerazione e di culti religiosi, che comprendevano musiche, danze e riti sessuali.

L’attaccamento dell’uomo con il felino, era molto profondo, tanto che chi uccideva un gatto, rischiava la pena dì morte.

Anche il serpente, animale sacro nel mondo arcaico, era legato al culto della Grande Madre, in quanto simbolo del mondo ctonio e acqueo, divenne l’animale simbolo della “strega“ e ancor di più, del maligno.

Nel Medioevo, le donne che cercarono di mantenere un certo rapporto con l’antica tradizione sapienziale – che nel tempo, comunque, era andata scomparendo – furono tacciate di praticare la stregoneria. Molte di  quelle donne erboriste, levatrici, amanti del vero amore, divennero creature infernali. Relegate ai margini della società, e condannate a vivere nel terrore. Senza contare che a molte di loro accadde perfino di dover morire bruciate  sui roghi dell’Inquisizione.

Giuliana Poli

Le Janare.

Tra le popolazioni longobarde, ricordiamo che le Streghe erano considerate una sorta di “donne cannibali” che si nutrivano di carne umana. La soggettiva evoluzione di quella tradizione, la ritroviamo nel culto delle “Streghe di Benevento”. Città che all’origine si chiamava Maleventum e, da sempre, considerata “città della magia”.

In quella zona d’Italia c’era la figura della Lamìa: un essere malefico che divorava i bambini, per l’invidia di aver perso figli.

Quest’ultima, dapprima diventò “Strega” – da “strige“, uccello notturno avido di carne infantile, in sostanza un vampiro; e poi, divenne “Janara“, da “jana”, termine che per il dialetto campano, toscano e sardo rappresenta quindi la strega, la maga, la fattucchiera.

Lungo il fiume Sabato, a Benevento, nei pressi dello stretto di Barba, si pensa fosse il luogo dove le “Janare“, si recavano per fare orge con i guerrieri longobardi che, di solito, si riunivano sotto un albero frondoso (forse un noce), per venerarlo e celebrare  Wotan, il padre  dei loro Dei.

Le “Janare“, vennero ricordate dai semplici uomini del luogo, come entità, in possesso di forze fisiche, soprannaturali e demoniache. Questo, per i semplice fatto che quelle donne, in preda al furore estatico, simile a quello delle Baccanti, riuscivano a soddisfare i desideri sessuali di un intero accampamento, e poi, assieme ai guerrieri, correvano con i cavalli attorno all’albero, dove veniva appeso il vello di un animale sacrificato (di solito un caprone).

Durante la corsa, si avvicinavano ai rami, e mordevano con ferocia piccole quantità del vello appeso, che veniva ridotto a brandelli.

La frase che recitavano le Janare era: “Unguento unguento mandame a la noce di Benivento, supra acqua et supra ad vento et supra ad omne maltempo”. 

Probabilmente, il culto delle Janare, deriva da antichi culti legati ad Iside, che venne identificata con Ecate, Dea degli Inferi, e Diana, l’Artemide greca. Non è neanche escluso che il medesimo nome con cui viene indicata la “strega a Benevento”, Janara,  possa derivare da quello di Diana.

 Giuliana Poli