L’idea originaria e implicita di questi culti preistorici, era che le pietre potessero fecondare le donne sterili. Oggi quasi tutte le cerimonie relative sono scomparse: è rimasto, però, a livello inconscio, quel che vi era di essenziale, cioè la fede nella virtù fecondatrice delle pietre. La credenza viene giustificata da leggende, anche recenti, o da interpretazioni cristiane: un santo si è fermato su quella roccia, una croce vi è stata eretta sopra, vi è accaduto un miracolo, ecc.
Negli spazi sacri dei santuari cilentani o lungo i percorsi che ad essi portano, troviamo numerose tracce di questi elementi, rimaste soprattutto nella toponomastica. Lungo la vecchia strada che porta al santuario del Sacro Monte vi è una località detta Manto ra Marònna dove, si racconta, i portatori sostarono e vi fu tagliato il manto della Madonna quando l’antica statua fu portata sulla sacra montagna. La fantasia popolare ravvisa in alcuni segni incisi su una roccia, forbici ago e ditale. A fianco a questa – ed è ciò che interessa di più per il nostro discorso – vi sono due monoliti eretti a forma di menhir, vicinissimi tra loro, tra i quali a stento passa una persona. Nei tempi antichi le donne sterili si sforzavano di passare tra questi, strofinando il ventre sulle pareti.
Sul Monte della Stella vi è una località detta Prèta ru Mulàcchio (cioè “pietra del figlio illegittimo”) ove sono egualmente due menhirs e vi si praticava lo stesso rito. Anzi qui la toponomastica è chiara rivelatrice della funzione di quelle pietre: il termine “illegittimo” è usato in senso positivo, vale a dire che erano le pietre a procurare la gravidanza, dal momento che quella “legittima” era fallita.
I pellegrini che percorrono oggi i due tragitti, eseguono ancora il rito, che però ha acquistato il significato di provare la purezza d’animo nel recarsi al santuario e di buon auspicio per raggiungere agevolmente la vetta.
Ancora sul Monte della Stella, verso Est, vi è un monolite poco distante dal costone delle Morge, che un tempo costituiva l’estremo limite dello spazio sacro; esso è detto Prèta Nzitàta, cioè che ha la capacità di rendere gravida (“zita” nel dialetto locale è la sposa che ha la capacità di procreare). Un tempo le donne sterili vi si recavano e cercavano di far fermare, lanciandoli dal costone, nove sassolini in un foro alla sua sommità; se vi fossero riuscite sarebbero rimaste incinte entro l’anno. L’uso divenne poi di buon auspicio per il ritorno al santuario l’anno successivo.
La stessa credenza era legata ad un simile monolite che si trova sul Sacro Monte, detto Ciamba re cavallo; ma qui già da secoli l’antica sacralità era stata ammantata dalla leggenda del cavaliere blasfemo.
Si narra che costui, giunto al santuario come scorta del suo re, non volle inchinarsi davanti alla Madonna; anzi derideva un commilitone che, prostrato, pregava. Ma accadde che il suo cavallo improvvisamente s’imbizzarrì e cominciò a correre all’impazzata sul sagrato; infine con un balzo raggiunse la sommità di un monolite che sorgeva isolato dal costone, restando in bilico sul burrone. Vistosi in grave pericolo, il cavaliere implorò la Madonna; il cavallo subito divene mansueto e saltò sul sagrato, mettendo in salvo il suo padrone ormai convertito. A ricordo del miracolo, il monolite si chiama ancor oggi Ciamba re cavallo, dal grosso foro a forma di zoccolo che si vede alla sommità.
E’ anche uso che i pellegrini raccolgano ai piedi del Sacro Monte un sasso, che porteranno fino a metà del percorso e deporranno a formare un primo grande cumulo. Un altro cumulo, detto Calvario, con eguale rito è sorto al limite dello spazio sacro del santuario, lì dove inizia la Via Crucis. La pietra, a volte scelta abbastanza grande, oggi è un segno di penitenza. Anche quest’uso è antichissimo, ma si è persa l’idea originaria del rito che presso i popoli primitivi indicava l’atto di “fissare” l’anima del morto alla terra (la Madre Terra) da cui doveva trarre nuova vita affinché non arrecasse male ai vivi. Qualche traccia di ciò è rimasta in alcuni paesi quando, all’atto di seppellire un morto, i parenti gettano nella fossa alcuni sassolini, prima quattro, simbolo della Morte, poi nove, simbolo della Vita.
L’idea della vita legata alle pietre veniva un tempo espressa anche nei giochi delle bambine con la pupa re pèzza, la bambola di stoffa, il cui “figlio” era sempre rappresentato da un sasso oblungo, avvolto in panni, che solo nella panificazione di Pasqua veniva sostituito col viccio.
Altre leggende sono legate alle pietre. Citiamo ad esempio quella che narra di come la Madonna abbia scacciato il diavolo dalla montagna destinata ad essere sede del suo santuario: da quella della Stella costui fu scaraventato su una roccia ove lasciò il segno delle zampe; essa è perciò detta ancora Prèta ru Riàvulo. Egualmente la Vergine lo scacciò dal Sacro Monte: il diavolo cadde su una roccia al limite sud-ovest del sagrato della Civitella, ove lasciò impresse le ginocchia e le mani; la pietra si chiama perciò Cantóne ru Riàvulo.
Queste leggende, per quanto ingenue e strane, forse recano la verità di un fatto storico, cioè il trionfo del Cristianesimo in luoghi nei quali anticamente vi era un insediamento pagano. Ma misteriose restano, al di là di ogni supposizione, queste testimonianze che spesso sono legate alla memoria del solo termine, `a Prèta (santuario del Carmine di Catona, Pietrasanta di S. Giovanni a Piro, ecc.).
IL CULTO DELLE PIETRE “FECONDE”. Riti priapici e desiderio di maternità nelle culture subalterne.
Post n°45 pubblicato il 06 Settembre 2009 da marcalia1
Tag: antropologia religiosa, culto del fallo, culto rurale, grande madre, maternità, pietre feconde, psicologia, rito popolare, santi priapici, superstizione, Tellus Mater
La funzione miracolosa della pietra non si ferma solo alla guarigione terapeutica. Anzi, come nudo parto della terra, (la Grande Madre Terra è la madre delle pietre),[1] ad essa si attribuiscono poteri fecondativi o di buon auspicio per abbondanti raccolti e figliolanze. Significativamente il mito iranico racconta che Mitra, il Deo Soli Invicto nato il 25 dicembre, non fu concepito da una vergine mortale,[2] bensì dalla petra genetrix, una roccia fecondata magicamente dal fulmine fallico di Padre Cielo:[3] il «Theòs ek pétras», Dio [venuto fuori] dalla roccia, divenne una delle più comuni formule dei suoi culti.[4] I nativi peruviani usavano certe pietre per aumentare il granturco e altre ancora per accrescere il bestiame. I Greci davano il nome di agata arborea ad una pietra preziosa i quali la ritenevano capace di incrementare il raccolto nel caso se due di tali pietre fossero state legate alle corna o al collo dei buoi all’aratro. Conoscevano anche una «pietra del latte», che procurava una copiosa secrezione del prezioso liquido a tutte le donne che ne avessero bevuto una soluzione di essa nell’idromele. Per di più a Trezene, nel Peloponneso, dove erano venerate le due potenze femminili connesse con la fertilità della terra, Damia e Auxesia, si teneva una festa con lancio di pietre in onore delle vergini divinità con l’espresso scopo di rendere il raccolto abbondante.[5] Analogamente, ancora oggi i contadini di Atessa (Chieti) spargono sui campi alcune pietre ritenute prodigiose, chiamate cicciole, con chiaro segno propiziatorio. Come augurio di fecondità la pronuba romana, guidando la sposa al lectus genialis, sparso di rose, la faceva sedere anticipatamente sul fallo d’un Priapo,[6] usanza d’origine indù che era ancora viva sul suolo italico nel IV secolo d.C.[7] Infatti, prima ancora che col marito legittimo, la donna doveva unirsi col simulacro itifallico in pietra del dio Matitus[8] (la priapica deità Tutunus), chiamato «Christus» perché il pene eretto della statua veniva dapprima lubrificato con il crisma, ovvero l’olio santo, e la giovane che andava a poggiarsi su di esso per essere così deflorata veniva di conseguenza indicata come Vergine Sposa di Dio.[9] Il termine italiano «affascinare» deriva da fascinum, il cui significato in latino alludeva inequivocabilmente al membro virile in erezione (che evidentemente affascinava ed attraeva magneticamente il sesso opposto): il fascinum veniva adoperato soprattutto nella forma di amuleti, i quali, a partire dalle credenze romane e durante tutto il corso del Medio Evo più superstizioso, funzionarono da autorevoli rimedi apotropaici contro il malocchio e le iettature di vario genere. In ogni caso, antichi idoli priapici a cui si attribuivano magiche virtù procreative generarono di fatto altri simulacri fallici dai poteri straordinari che il cristianesimo medievale assorbì nell’ordine celebrativo dei santi. Un tempo, nei santuari di saint Giles in Normandia e di saint René nell’Anjou (oggi Maine-et-Loire), le donne dovevano coricarsi per l’intera nottata con le immagini itifalliche di questi due santi nella speranza di restare incinte. Rito simile riguardava la devozione, anzi la fascinazione femminile per saint Guignolé e saint Foutin (sic!) de Varages, i cui prodigiosi membri di legno venivano carezzati con ardore dalle donne ansiose di posterità. Santi fallici, patroni della virilità, erano anche Cosma e Damiano,[10] invocati ad Isernia dagli uomini con problemi sessuali: sir William Hamilton, un diplomatico scozzese alla corte di Napoli che testimoniò direttamente questo culto nel XVIII secolo, riferì anche di ex-voto plasmati con la cera a forma di membro virile e di un olio benedetto contro l’impotenza, che il prete raccomandava di spalmare sui genitali. Ma finanche Gesù assunse il ruolo di un dio fallico, nel senso che il suo (falso) prepuzio residuo della circoncisione diventò nel Medio Evo e nel Rinascimento la più conosciuta ed efficace reliquia atta ad ingravidare le donne sterili: al Santo Prepuzio conservato a Chartres sono state addirittura attribuite migliaia di gravidanze miracolose.[11]
Hermes, nato da Maia in una grotta d’Arcadia del monte Cillene in seguito allo stupro di Zeus, non era in origine concepito come un dio ma personificava le virtù totemiche di un simulacro fallico: si riteneva che egli risiedesse in una pietra a forma di membro virile attorno alla quale si svolgevano le danze orgiastiche in onore di Maia (un appellativo della dea Tellus come Vegliarda).[12] Un senso fallico aveva pure la pietra sopra il letame, ed altre pietre alle quali lo sposo indiano, a più riprese, faceva accostare la sposa, «dalla quale scongiuravasi pertanto Viçvàvasu, il genio della verginità».[13] Nel villaggio di Saint-Ours, sul versante francese delle Alpi occidentali, si trova una pietra sulla quale le ragazze si strofinano per trovare marito e le mogli affinché possano ottenere la discendenza. In Madagascar, pochi chilometri a sud della capitale Antananarivo, giace un masso di forma affusolata che gli abitanti del luogo conoscono come pietra gravida, non perché sia in procinto di partorire bensì per la ragione che rende feconde tutte le ragazze che lo invocano.[14] In Indonesia, sulle isole Kai, la donna che desidera figli cosparge di grasso una pietra ritenuta prodigiosa. Le fanciulle che abitano nei dintorni della grotta di Saint-Baume, vicino alla cittadina provenzale di Saint-Maximin, implorano la fecondità di Maria Maddalena, intesa da quelle parti come una potente antica Madre,[15] mediante un rito pittoresco:[16] di nascosto da sguardi indiscreti costruiscono i cosiddetti «castelletti», vale a dire tre ciottoli disposti a triangolo al cui centro infiggono una pietra oblunga (appare qui chiaramente un mimica dell’atto sessuale). La venerazione del fallo e l’emulazione del coito emerge chiaramente nella festività indù del Namaputche, celebrata comunemente dalle donne, che consiste nel bagnare alcuni simulacri di pietra, raffiguranti il linga, posti fra due serpenti.
In località Malachrito, vicino ad uno degli ingressi del vecchio bosco di Calimera, un paese della Grecìa salentina, all’alba di Lunedì dell’Angelo molte donne e numerosi uomini, raccolti all’interno della chiesetta dedicata a san Vito (XV secolo), attraversano strisciando, sempre nella stessa direzione, uno sgraziato reperto monolitico di circa un metro d’altezza, forato al centro, per rievocare in tal guisa un antico rituale primaverile di fecondità e di propiziazione per la nascita dei figli, se non addirittura un vero e proprio atto personale di «rinascita» interiore. Con l’idea di assorbire la fermezza della pietra una sposa brahmana è tenuta, durante la cerimonia, a camminare con il piede destro mentre le vengono recitate queste parole: «Cammina su questa pietra; come una pietra sii salda». Tale rito indù recupera notevoli affinità con quelli eseguiti nei pressi di Rennes, in Bretagna, dove la donna cristiana desiderosa di figli saltava sulla cosiddetta Pietra delle Spose o si coricava, a Saint-Renan, per tre notti sopra una grande roccia denominata «la cavalla di pietra». A detta di alcuni studiosi di psicologia religiosa, queste pratiche non possono spiegarsi razionalmente se evitiamo di presupporre, per coloro che le attuano, o le hanno attuate, un’estrema risorsa di fede come forza psichica individuale che, opportunamente conosciuta ed esercitata, permette ai credenti di oltrepassare i limiti delle leggi fisiche e naturali:
Quante donne hanno concepito per virtù di una pietra? Si può pensare molte, o almeno tutte quelle che soffrivano di un blocco psicologico al momento del concepimento e che, grazie a una terapia totalmente placebica, immaginativa, potevano superare la causa psicosomatica che bloccava la loro procreazione
Troviamo così traccia nel folklore locale di quella tradizione italiana delle “pocce lattaie” o “latte di grotta”, il liquido lattescente che, a causa dell’alto contenuto di carbonato di calcio, è estremamente simile al siero mammario femminile. Se dunque l’acqua macrocosmicamente è il sacro liquido della Mater che garantisce la fertilità, diventa di estrema importanza raccoglierla in piccole conche rituali che potremmo definire “Coppelle”. In moltissime aree neolitiche liguri sono state così ritrovate pietre con strane incisioni cuppelliformi o a forma di “U”, una rappresentazione schematica del toro, animale totemico della dea5, come sul Promontorio del Caprione, sul monte Beigua o a Monte Matto. Su quest’ultimo moltissimi sono stati i ritrovamenti di massi a forma di losanga6, geometria non casuale ma messa proprio in relazione all’organo genitale femminile, con sopra incise proprio delle piccole coppe, che sottolineerebbero l’idea esposta.
Se così la pietra rappresenta la figura femminile, l’incisione centrale è simbolo di prosperità, più essa è ricca dell’acqua che in essa si accumula e più è sacra e la coppella posta al centro della roccia indicherebbe così la “gravidanza” della mater.
Identici significati sacrali hanno i piccoli canali di scolo scavati nella roccia le cui funzioni, scarsamente pratiche, hanno un importante carattere rituale come dimostrato in moltissime altre parti di Italia come in Basilicata, e precisamente a Rossano del Vaglio o ad Armento i cui santuari erano legati alla locale dea Mefitis.
Un esempio ligure potrebbe essere il sito del “Rifugio di Sant’Anna” ove, sul tetto è incisa una grondaia, le cui scarse finalità pratiche sicuramente la collegano ai rituali precedentemente esposti7. Sempre nella zona, poi, molti sono le rocce che presentano incisioni cuppelliformi come su un masso di circa 20mq presente tra la sorgente e il corso d’acqua ivi presenti8. Anche il culto delle fonti sacre non è estraneo a questi luoghi. Ancora oggi, secondo le tradizioni popolari e contadine, l’acqua delle sorgenti o quella raccolta in piccole pozze carsiche ha notevoli poteri curativi tradizione che rimane ben salda anche quando alla sacra “coppella” viene sostituito il pozzo, simbolo religioso ma anche dagli importanti risvolti pratici dato che l’acqua in esso accumulata può garantire la sopravvivenza di una famiglia o del raccolto. Ed ecco che dobbiamo rifarci ad alcune tradizioni popolari, paradossalmente legate al Cristianesimo, per scoprire molti di questi sacri luoghi. Dopo le inutili proibizioni nel 452 con il Concilio di Nicea e successivamente nel 789 con quello di Tours, la Chiesa adottò la strategia di “assorbire”, con una vera e propria operazione di sincretismo, questi antichi rituali per poi legarli a figure cristiane come i Santi o la Vergine. Ecco che celate dal velo religioso traspaiono pratiche e usanza pagane. Fonti miracolose sono presenti in decine di Santuari spesso dedicati proprio alla “Madonna dell’Acqua Santa” il cui nome ci ricorda le sue antiche origini del culto. Sacre fonti le troviamo a Bergalla di Balestrino, ad Acquasanta, Casanova Lerrone e ad Alberga in provincia di Savona9, mentre Santuari dedicati a Nostra Signora dell’Acqua Santa sono presenti nella provincia di Imperia e precisamente a Montaldo e a Dolcetto10. Queste tradizioni sono ancor più presenti nell’area genovese, come testimonierebbe il Santuario “dell’Acquasanta” o la “fontana della Madonna” presente a Lumarzo11, la cui tradizione vuole legata ad una misteriosa apparizione della Vergine nel 1555. Sarebbe da ascriversi ad un periodo successivo, invece, l’apparizione mariana che ha dato vita al culto della “Acqua di Madonna” presente a Masone e a Valbrevenna. Il culto delle sacre acque non è l’unico nella regione ad essere strettamente legato ai rituali di fertilità e procreazione dell’Antica Mater, così questa ricerca continua tra sacri i betili. Molti sono nell’area ligure i menhir, come quello di Torre Bastìa, di Cian da Munga12, la pietrafitta di Triora, il dolmen di Verezzi, sul monte Caprazotta,o ancora la pietra di Marcello Dal Buono, per terminare con i beliti del Finalese, tutti nella provincia di Savona, o ancora il complesso di Val Bormida o il menhir Tramonti.
Altri strani siti sacri li troviamo sui Monti Branzi la cui etimologia riporterebbe al termine celtico bram, cioè pietra fallica13 o nell’area di Scornia a sua volta derivante dal termine skeir-na o luogo delle pietre. In provincia di La Spezia, poco dopo il paese di Biassa e precisamente al Valico di S.Antonio, vi è un menhir che sicuramente faceva parte di un gruppo più ampio, dato che un altro si trova abbattuto nelle immediate vicinanze insieme ad uno spezzone di un terzo ed un altro ancora si sarebbe trovato proprio sul valico e che risulta essere ora al museo cittadino o a quello di Pontremoli. Un altro allineamento litico doveva poi esser presente sul monte Beigua, in località “Le Faie”, nome che ci riporta a quelle mitiche figure dirette discendenti di antichi ricordi pagani. Qui è presente una pietrafitta resa piuttosto instabile dal tempo e dall’uomo, mentre la memoria contadina parla di numerosi altri menhir poi abbattuti dagli stessi agricoltori14. Un altro masso particolarmente interessante perché legato a quella cultura subalterna popolare è presente poi nel Santuario benedettino della Maddalena di Taggia, qui si trova una pietra orizzontale retta da due elementi verticali, alla stregua di un dolmen. La tradizione vuole che ci passassero sotto i bambini in una specie di rito rurale di passaggio15. Di particolare interesse, poi, sono le così dette pietre della fertilità, luoghi ove l’uomo cercava di propiziarsi la continuità della propria progenie con strani rituali apotropaici. L’idea era semplice, nell’immaginario popolare la pietra era considerata il priapos primordiale, l’elemento fallico maschile che, infisso nella terra, la rende fertile. In una visione microcosmica il primitivo immagina che, come il dio maschile rende fertile la terra attraverso la roccia, lo stesso poteva accadere per le donne del paese che, strisciando sopra questi sacri massi, si assicuravano la fertilità e la capacità procreativa16.
Da qui la tradizione degli scivoli di fertilità, pietre levigatissime che ancora oggi possiamo incontrare in molti comuni d’Italia ove era usanza lasciarsi appunto scivolare e dunque strisciare i proprio organi sessuali alla ricerca di fecondità. Il Liliu, parlando di simili tradizioni in Sardegna afferma che “cerimonie a sfondo magico e religioso dovevano effettuarsi presso i menhirs, gli dei di pietra al naturale…qui si celava lo spirito fecondatore. Questo come attestano elementi residui del follore sardo delle pietre, era assunto, magicamente, dalle vergini spose, scivolando nude, sul pilastro…o sfregandovi il ventre e il sesso o semplicemente arrampicandosi: era il sacrificio venereo al genio della pietra, perché il grembo femminile non negasse la prole”17. Esempi di questo tipo li troviamo a Plodio, in provincia di Savona e Borzoli, nei pressi di Genova ove ancora oggi si parla di antiche pratiche legate alla “Pria Scugiente”, una roccia di serpentino, conosciuta anche con il nome di “pietra lubraca”, ove le donne solevano strisciare per garantirsi un buon parto18. Anche se con un rituale del tutto differente non possiamo non nominare, poi, tra i siti legati ai rituali di fertilità, i circoli litici di Camporotondo, un recinto megalitico del diametro di 150 metri19 e quello presente nell’area della “Grotta delle Fate” da dove, attraverso una scala scavata nella roccia, si raggiunge questo sacro recinto proprio posto sulla verticale dell’antro20. Attorno a queste costruzioni sono state avanzate numerose ipotesi, ma non ne è stata ancora definita una esaustiva, potremmo così avanzare una idea che legherebbe appunto questi siti all’antico culto della Dea Madre. Il circolo litico, purtroppo oramai perso, poteva così essere utilizzato per rituali di fertilità, un enorme “cerchio”, disegnato da pietre infisse nel terreno, e un corridoio che ricorderebbe le vie della fertilità per raggiungere il circolare utero della dea, il sacro Nemeton reso verosimilmente fertile da un elemento fallico centrale, verosimilmente un menhir, come in un altro sito simile presente nell’area piemontese del monregalese.
rocce della fertilità sono rocce legate al culto della Dea Madre. La pietra infatti è sempre stata simbolo della dea ctonia.
In questi rituali le donne che desideravano avere figli strusciavano l’organo genitale sulla pietra, di solito usandole a mò di scivolo. Oppure le ragazze che desideravano contrarre matrimonio ci giravano attorno.
In quanto le donne cercavano nel contatto con la roccia una spinta magica ed energetica all’atto generativo, convinte che attraverso la forza della terra la fecondazione era favorita e fortificata.
Si trattava di un atto non solo magico am anche simbolico confermato dal fatto che anche oggi in ambito tradizionale e alchemico il seme maschile è associato alla pietra.
Tali pietre erano in uso nel nord Europa, ed infatti le testimonianze più famose provengono dalla Bretagna e dall’Inghilterra dove tali pietre si dice che vengano ancora utilizzate come in Belgio, dove fino a non molti anni fa il 25 marzo i giovani scivolavano su una pietra detta “ride-cul” poiché fungeva da vera e propria grattugia del fondoschiena degli aspiranti sposi, a ridosso di queste pietre vennero quasi ovunque costruite chiese o cappelle e in prossimità di questa pietra belga venne costruita una chiesa denominata dai paesani “Nostra Signora del grattaculo”.
Anche in Italia, soprattutto al nord, sono state trovate alcune di queste pietre dagli studiosi.
Questo che segue vuole essere un piccolo itinerario per tutti coloro che fossero interessati a visitare queste pietre che purtroppo in Italia sono spesso state distrutte o deturpate.
A Borzoli fino a non molti nani fa venivano praticati dei riti della fertilità sulla cosiddetta “Pria scugente”, una roccia di serpentino verde menzionata addirittura in alcuni documenti risalenti al 1359, Ciò che toglie ogni dubbio su ciò che avveniva sopra questa pietra è che la stessa veniva definita “pietra lubricam”. Altri riti venivano praticati in provincia di Biella su quella che era chiamata la “roc d’la sguija”, su cui ancora oggi è ben visibile il lucido solco lasciato dalle parti anatomiche delle fanciulle “in età da marito” che vi si strofinavano.
Ad Omega nei pressi di Cranna c’è la “scanna brag”, a Pignone c’era in “sass prenuà” o “roccia di Noè”, oggi purtroppo tale pietra è stata distrutta.
Un’altra pietra della fertilità oggi distrutta si trovava a a Gurro in Val Cannobina ed era chiamata “pietra sbarrata” dal dialetto “sburr” che significa “slittare con le terga”
Nella Val Vigezzo c’è il”sasso della Lissera” usato ancor oggi dai bambini come scivolo.
A Sesto Calende in località Locca, c’è la “pietra bruja” un masso erratico somigliante a una testa di falco, in cui, in epoca remota, delle donne della “cultura di Golasecca” venivano praticati riti di fertilità e su cui sono ancora ben visibili tracce di antiche incisioni rituali. Sembra che il nome del paese derivi dal latino Locum, indicante il luogo dove avvenivano i riti dedicati alla dea madre,
A Oropa in provincia di Biella c’è la “roch d’la vita” situata nel santuario. La leggenda racconta di S. Eusebio nel 369 nascondesse in una nicchia di questa roccia la statua lignea della Vergine, ancor oggi visibile, per salvarla dalle persecuzioni anticristiane. Attorno a questo masso su cui anticamente venivano celebrati riti di fecondità, fu dapprima edificata una cappella che pian piano vene ampliata inglobando così il “roch d’la vita” e facendo contemporaneamente scomparire l’antica usanza pagana. Prima dell’avvento di S. Eusebio, infatti, le donne con problemi di sterilità giravano più volte attorno alla roccia della fertilità e, al termine del rito, vi si strusciavano, l’area genitale con il palese intento di trasferire nel loro corpo le energie collegate alla sacralità del masso. Con la costruzione della cappella nel 1690, rimase un piccolissimo varco tra il masso e il muro, varco in cui anche se a fatica le donne riuscivano a passare per continuare il rito che la Chiesa aveva tentato di cancellare per sempre dalla memoria degli abitanti del luogo. Oggi nonostante il pertugio sia stato ostruito da una colata di cemento, alcune donne si siedono sulla parte sporgente del masso, certe così di facilitare i loro futuri rapporti amorosi e le conseguenti gravidanze.
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