La storia della guarigione di una giovane donna che,nello scoprire sé stessa, la sua terra e le sue acque, scopre il vero senso della salute e della vita.

“La Donna delle sette fonti”  di Antonio Diego Manca (Edizione Condaghes, Cagliari, pagg. 153), è un libro che ha il profumo del mito della donna, di un mondo arcaico in cui l’uomo era in contatto con il sovrannaturale, con se stesso e la Natura, dove tutto ha un’anima. E grazie all’Anima dell’acqua, che Antonietta, malata di Leucemia, riuscirà a guarire. Grazie all’aiuto di una figura straordinaria come Tia Nanna, una signora molto anziana e Sapiente, che Antonietta vincerà la sua battaglia nel corpo, ma soprattutto contro il suo nemico più crudele, la parte oscura di sé. Un vero viaggio iniziatico, in cui la ragazza dovrà perdere la sua vecchia identità per acquisirne una nuova, con un nuovo nome: Maria, la Stella Maris, la Stella del Mare,  l’Acqua, la nostra Madre divina. Il libro si chiude  con la ‘Preghiera a tutte le Sacre Acque’, di Hyemeyohsts Storm, un famoso Medicine Man indiano degli Stati Uniti, maestro di Diego Manca. Un libro che tocca nel profondo, che riconosco, che ho amato e che consiglio di leggere.

G. P.

Intervista ad Antonio Diego Manca Autore del libro La donna delle sette fonti

 

a cura di Giuliana Poli

 

1) Un libro al femminile, sul percorso spirituale di una ragazza scritto da un uomo? Come mai?

Quando scrivevo il romanzo volevo fare qualcosa per i giovani e infatti ho sempre tenuto a mente di avere davanti lettori e lettrici dai 13 ai 18 anni per i quali semplificavo, da un punto di vista linguistico e dei contenuti, tutti questi passaggi linguistici e narrativi che mi sembravano troppo complessi. Era, e lo è tutt’ora, per me importante parlare ai giovani di alcuni valori della vita. Mentre scrivevo la prima stesura del romanzo le mie due figlie avevano la prima 16 e l’altra 7 anni circa ed è soprattutto a loro e alle ragazze della loro età che mi volevo rivolgere.

Così è stato naturale scegliere come protagonista del libro proprio un’adolescente, Antonietta. Questo personaggio è completamente inventato, anche se lei, come le altre donne del romanzo, rappresentano molti aspetti del mio femminile psicologico, che ho imparato a riconoscere in tanti anni di studio e di lavoro su me stesso.

Inoltre, attraverso Antonietta ho voluto mandare un messaggio sul coraggio. Le donne del romanzo, soprattutto Tia Nanna, spingono Antonietta a lottare contro la sua malattia e contro la rassegnazione, ma soprattutto lottare per realizzare il proprio sogno.

 

2) Cosa rappresenta l’Acqua per Diego Manca? Si può guarire con l’acqua ?

 

Nel mio romanzo l’attore principale è la natura sotto le spoglie dell’acqua. In principio era l’acqua, sarebbe il caso di dire, più che la parola, no? Ciò che è alla ricerca di questa capacità primigenia, restituzione alla vera essenza del mondo da parte dell’acqua e quindi di guarigione delle ferite dell’anima oltre che del corpo. Ho cercato di tracciare un percorso che definirei di “discesa alle Madri” e un viaggio di iniziazione. Ecco, dico discesa alle Madri, perché il romanzo si svolge in pratica all’interno di una comunità di donne, in una Sardegna arcaica, primordiale, dove prevale una dimensione di lentezza. Ho usato per il romanzo una scrittura lenta, agiata, serena e rasserenante, all’interno della quale questa discesa alle viscere della natura indica appunto l’andare alla radice di sé e alla radice dell’inconscio collettivo. L’acqua è il simbolo stesso dell’inconscio, di questa dimensione materna e primordiale dove ognuno di noi si ritrova e ricostruisce le ragioni fondamentali della sua biologia, della sua natura e della sua storia. L’acqua, però è per me anche espressione dell’universo, del mondo, in quanto dall’acqua ebbe origine tutto ciò che è vivente. Dai greci, da Anassimandro, da Anassimene e dallo stesso Eraclito, “tutto scorre“, quindi l’acqua è stata sempre vista come l’elemento fondamentale, necessario e insostituibile, ma anche all’interno delle visioni mitico-religiose, l’acqua della vita. Non a caso l’inizio della trasformazione per ogni credente avviene proprio attraverso l’immersione nell’acqua, attraverso questo contatto con la fonte della vita e in calce il fonte battesimale. Qui però l’acqua è nutrimento ed è sostanza che deve appunto distruggere le cellule impazzite. La protagonista, inizialmente Antonietta, è poi “battezzata” come Maria. Non a caso il rinominare coincide proprio con il ribattezzarsi dell’acqua, significa appunto farsi modificare dall’acqua come elemento di trasformazione. L’anziana Tia Nanna chiede infatti ad Antonietta di cambiare nome e farsi chiamare Maria, per imporle un nuovo modo di rapportarsi col mondo circostante, col cibo, con tutto. Ogni cosa dovrà essere vista con occhi nuovi e trattata con rispetto e riconoscenza. Ma il cambiamento maggiore dovrà essere soprattutto con la natura: con l’acqua, con i fiumi, le cascate e gli alberi. Maria dovrà trattarli come cose vive che l’ascoltano e la capiscono. Saranno suoi confidenti e amici. Per me, ciò che è in natura ha un legame diretto con il mondo spirituale: ogni azione ha un effetto sui mondi superiori. E ciò non è per me solo un modo di pensare. È qualcosa che ho sempre praticato e non solo studiato: mi sono interessato di buddismo, praticandolo per anni; mi sono interessato di sciamanismo, seguendo per oltre 30 anni la Via della Ruota di Medicina degli Indiani d’America. Ora sto studiando la Kabbalah – e per questo sto imparando anche l’ebraico per poter meglio comprendere e mettere in pratica millenni di insegnamenti. Dopo tanto girovagare mi sono reso conto di una cosa: tutto è uno. Ai livelli superiori tutte le pratiche vere dicono le stesse cose: qualcuna sottolinea un concetto in particolare, qualcun’altra è limitata ad una parte del tutto, così come la meccanica newtoniana è ricompresa in quella einsteiniana. Ma tutte tendono allo stesso limite, inteso in senso matematico: la Verità, l’Onestà, il Rispetto di tutte le cose create.

(Vedi anche appendice 2)

 

3) Le sette fonti, in cosa differiscono l’una dall’altra?

 

In realtà è una unica fonte con sette bocche diverse… Anticamente erano sette polle d’acqua che uscivano da una vasca circolare; da lontano sembrava un muretto a secco, come se ne vedono a migliaia in Sardegna, solo che qui, in cima al muretto sgorgavano sette polle d’acqua.

Da alcuni anni il comune di Santu Lussurgiu ha fatto costruire sette fonti una accanto all’altra, ma la fonte che le alimenta è unica.

 

 

4) In ogni libro c’è comunque un aspetto autobiografico dell’Autore, se non sono indiscreta qual’è la parte di Sè che ha voluto scoprire nel suo libro?

 

La storia di Maria è anche la mia storia: anch’io ero molto malato, anch’io ero inquinato – lo sono abbastanza ancora – ma fu molto importante rendermi conto che ero malato, che ero malato nello Spirito, che stavo morendo; era grave la mia malattia, molto grave. Anche se tutti dall’esterno vedevano un Diego sano, ben pasciuto e forte, dentro ero molto malato. Non me ne resi conto subito. Quando iniziai a rendermene conto sentii la necessità impellente di curarmi, di fare qualcosa pur non sapendo cosa fare. Ebbi la grande fortuna (perché cercavo… è importante cercare) di trovare qualcuno che mi ha aiutato con i suoi consigli, con i suoi insegnamenti, a guidare i miei passi, a cercare di farmi vedere, di farmi vivere, non di dirmi cosa dovevo fare, ma di darmi delle dritte ogni tanto. Era come se dicesse: “Guarda, prova a fare così, prova a passare di qui.” E questo penso che mi abbia aiutato a salvarmi la Vita, la mia Vita spirituale (e anche fisica). Ma non c’è nessuna differenza: sarei morto molto prima di quanto morirò se non avessi seguito i suoi consigli. Il viaggio di Maria e il viaggio di Diego sono molto simili, è chiaro; ma un’altra cosa infatti che ho scoperto durante questo viaggio è che io avevo un’Antonietta dentro di me, (ho tante parti dentro di me), una parte che continuavo a mettere in secondo piano e a tenere segregata, una parte molto grande di me: era la mia parte creativa, la mia parte femminile. L’ho chiamata Antonietta per darle un nome. Essendo nato maschio in un corpo maschile, cresciuto in una società come quella sarda e italiana e in generale occidentale, nella mia cultura era abbastanza disdicevole mostrare qualcosa di femminile; come maschio avrei fatto chissà quali brutte figure: piano, piano decisi di rieducare e di curare questa mia parte. E ho iniziato a curarla andandomene a vivere il più vicino possibile alla Natura, stando tutti i giorni accanto a colei o a quella cosa chiamata Natura o Vita o Terra, dalla quale mi sentivo, e mi sento, così amato e che mi stava curando e guarendo. Mi sono reso conto solo dopo che avevo vissuto vicino alla Terra per qualche anno di quanto fosse importante viverci vicino. Per me è stato di vitale importanza vivere questa intimità con la Terra: prima era come se fossi innamorato di una donna che abita a Palermo mentre io vivo a Milano. Con la testa ci amiamo, ci sentiamo tutti i giorni, però lei è lontana, non ci vediamo tutti i giorni nell’intimità, non stiamo insieme fisicamente; mi resi conto allora che per amare veramente e per sentirmi amato devo avere un contatto con la persona amata, un contatto anche fisico; per me è molto importante.

 

5) Cosa rappresenta la Sardegna per Lei?

La Sardegna è la mia Terra Madre, la terra dove sono nato. Amo la mia terra, i suoi profumi, i suoi sapori, la sua asprezza, la sua bellezza. Amo la mia gente. Non è stato un amore spontaneo, qualcosa di ovvio. Prima ho imparato ad accettare e amare me stesso, poi ho imparato ad accettare e ad amare la Sardegna, e dopo ho imparato ad amare la Terra tutta; in verità la mia vera Terra è tutta la Terra.

 

 

6) Come mai ci sono questi luoghi di culto  dedicati al culto della Grande Madre che rimane comunque un mistero? Secondo Lei da quale civiltà derivano? Si è fatto un’idea storica ed antropologica in breve?

 

Il culto principale degli Antichi Sardi era quello delle acque e l’adorazione più frequente si rivolgeva soprattutto all’acqua di vena, a sa mamma ‘e s’abba (mamma dell’Acqua), l’acqua delle fonti, dei pozzi e delle sorgenti a cui si abbeveravano i pastori e le loro greggi. La forma stessa dei Pozzi Sacri, dove la gente andava a pregare la Dea di questo elemento prezioso, indicava che, nascosto sotto i veli dell’acqua, c’era un essere femminile.

Cito un pezzo del mio libro: «Per gli Antichi, i pozzi come questo erano luoghi dove il Sole penetrava per fecondare la Terra. L’acqua era insieme il seme e il latte della Terra. Gli Antichi pensavano che l’acqua potesse guarire tutte le malattie, soprattutto l’acqua di quelle vene che scorrono fra le querce. Era in quei luoghi che gli anziani scavavano e costruivano i pozzi sacri. La quercia, per gli Antichi, era la Signora delle albere, la Dea della Vegetazione, fonte di ogni alimento.» Maria ascoltava con grande attenzione le parole della vecchia. Anche Lucia, seduta un paio di gradini più in alto, non perdeva una parola.

«L’acqua scioglie gli elementi, Maria, li lava, li modifica. È la sostanza dalla quale dipende tutta la vita. Gli Antichi scendevano qui non per lavarsi, ma per pregare. Pregavano Nostra Signora delle Acque di purificarli e guarirli dai loro mali e Lei dava loro una purezza che potevano trovare solo in questi luoghi, perché è l’Acqua la sostanza che lava le impurità dello Spirito.»

Lucia e Maria si lasciarono trasportare dalle parole dell’anziana donna, che evocavano dentro di loro un mondo antico, dimenticato, però mai cancellato del tutto.

Tia Nanna si alzò, appoggiò lievemente le mani sulla testa di Maria e sorrise. La invitò a restare accanto all’acqua, per pregare, finché avesse voluto; lei e Lucia l’avrebbero attesa fuori.

Rimasta sola, Maria osservò la camera circolare e si sentì protetta da quelle pietre massicce e squadrate. Dal foro della cupola sovrastante la camera del pozzo entrava un fiotto di luce. Maria si specchiò nell’acqua e vide il suo collo esile, il viso magro e affilato. Stentò a credere che quella immagine fosse la sua. Le venne in mente Zia Rosaria, forse perché spesso la chiamava «Mangoedda», Piccolo Fenicottero; ora anche lei vedeva la propria somiglianza con quegli uccelli. In un libro di scuola aveva letto che per gli Egiziani il fenicottero era la Fenice, che ogni 500 anni moriva per poi risorgere dalle proprie ceneri. Chissà se anche lei, pensò, sarebbe risorta come quell’uccello mitico.

(Vedi anche appendice1)

 

 

7) Il suo bel romanzo è la vittoria della vita sulla morte. Cosa rappresenta la vita per lei? E cosa significa amare per un uomo e cosa per una donna?

 

Una trentina di anni fa il mio amico e maestro indiano americano Wolf Storm mi consigliò di comprarmi delle oche e di andare a vivere in campagna. Lo feci e quasi senza accorgermene, iniziai ad amare sempre di più la Terra. Non c’era molta retorica in questo amore; avevo gli animali, avevo le oche che mi insegnavano, avevo un piccolo orto (che mi insegnava), avevo dei conigli; tutti i giorni dovevo pulirli, togliere la merda, delle oche lo stesso, pulire la merda, dar loro da mangiare; i conigli li allevavo, poi anche li uccidevo e li cucinavo e li mangiavo. Ho seguito tutto il processo della Vita e della Morte. Ho imparato molto, ho imparato a rispettarli, gli animali e a rispettare me stesso. Un giorno mi svegliai alle cinque del mattino ed uscii fuori per dar da mangiare alle oche. Sotto casa c’era un campo immenso arato da poco ed era appena sorto il sole: dalla Terra sembrava che uscissero delle nuvole di vapore, come se respirasse. Mi resi conto di quanto la Terra fosse viva e affondai le mani dentro di Lei, dentro le sue zolle e allora successe qualcosa di straordinario: provai una gioia così grande che mi misi a piangere. Fu un’esperienza molto bella e intensa, durata poi per due o tre giorni. Ma la cosa mi fece anche un po’ spaventare perché non sapevo cosa mi succedeva. Sentivo che quello che stavo provando era come un innamoramento – lo chiamo innamoramento perché le poche volte in Vita mia che mi sono innamorato, mi sono innamorato di una donna e quel tipo di sensazione l’avevo sempre collegata a una donna. Mi resi conto che la Terra mi amava , mi amava e non chiedeva niente in cambio. Non avevo niente da fare, non dovevo fare nulla per essere amato, se non esistere. Ero amato e basta. È come se questo amore mi avesse riempito il cuore fino a traboccare: non avevo più bisogno di cercare amore nelle altre persone come avevo sempre fatto, come molti di noi fanno. In quel momento mi sentivo pieno, sazio, riempito. E per giorni e giorni sentii una gioia indicibile: fu un’esperienza meravigliosa. Raramente ne ho parlato, anche perché era una cosa intima, personale e non volevo neanche, diciamo, sporcarla parlandone; raccontata in giro un’esperienza del genere può dar adito a stupide barzellette, però ora ne voglio parlare, perché penso che raccontare queste cose sia importante. Da allora iniziai a sentire la sensazione di essere amato: non avevo più questo bisogno tremendo di vampirizzare nessuno, non sentivo più il bisogno di chiedere, chiedere, chiedere, chiedere… di andare sempre in giro in ginocchio a chiedere: “Amami, amami, voglimi bene… accettami…” Mi sentivo accettato e amato dalla Terra. Lei mi amava e non voleva niente in cambio: un amore disinteressato, il suo.

Per quanto riguarda la tua domanda sulla morte, ti rispondo dicendo che, innanzitutto, lo affronterei cercando di non terrorizzare le persone. Alcuni anni fa ero in Germania sulle montagne della Bassa Baviera insieme a degli amici e amiche, Falcon, Osprey, Impala, Drago, i miei amici “indiani”. Ero là con loro, arrivato dall’Italia da qualche ora, in mezzo a quelle bellissime montagne, in mezzo alla Natura, stupende foreste di abeti, mucche da tutte le parti, molto bello, circondato da amici e amiche che mi volevano bene, insomma stavo molto bene. A un certo punto arriva una telefonata: era mia sorella che piangeva: “C’è mamma che sta malissimo, forse non supererà la notte, crediamo che stia morendo. Torna subito.” (Mia madre era stata ricoverata d’urgenza in ospedale per un ictus.) Scoppiai a piangere, stavo malissimo. Dovevo assolutamente prendere il primo treno per l’Italia, solo che erano le cinque del pomeriggio e il primo treno per Milano partiva solo alle undici di notte. Fino alle undici di sera questi amici mi hanno preso con loro, mi hanno avvolto dentro a una “coperta di Medicina” e mi hanno portato con loro nel bosco. Ricordo soprattutto le parole del mio amico Falcon,: “Non piangere,” mi disse, “non essere triste. Ricordati che la Morte è la sorella gentile della Vita. “Death is the gentle sister of life ,” mi disse. Mi sembravano solo parole, molto belle, ma solo parole, ma lui mi fece capire in quel momento come la Vita e la Morte siano due facce della stessa medaglia e che bisogna accettarle tutte e due. Vedendomi affranto si arrabbiò con me e mi disse: “Cosa vuoi, che tua madre viva fino a cento anni e che ancora soffra e stia male? Sta morendo: questo appartiene alla Vita, accettalo.” Io, come la maggior parte di noi che viviamo in Italia, in Europa, nel mondo occidentale in genere, forse in tutto il mondo, siamo stati educati a vedere la Morte come qualcosa di macabro, spaventoso, di terrorizzante. E’chiaro che lo è, anche. Lo può essere, soprattutto quando si soffre. Quando si soffre è il dolore che spaventa molto, il dolore spaventa tutti, me per primo. Però non accettare il dolore e la sofferenza significa anche non accettare la Vita e chi ha paura di morire ha paura anche di vivere. E chi ha deciso di vivere pienamente la Vita non può farlo se non accetta anche la Morte. Carlos Castaneda, in uno dei suoi libri faceva dire al vecchio stregone Don Juan : “Non conosco sopravvissuti.” Infatti non conosciamo nessuno che sia sopravvissuto alla Morte, tutti dobbiamo morire: sia quelli che la Morte l’accettano che quelli che non l’accettano; sia quelli che della Morte hanno paura sia quelli che non ce l’hanno; quelli ai quali la Morte è indifferente… tutti dobbiamo morire. E’ una delle poche certezze che abbiamo. Perciò perché vivere nel terrore e nella paura i pochi anni che la Vita ci ha donato? Io penso che se tratterò ancora una volta il tema della Morte, voglio comunicare ai lettori che si può affrontare la Morte in tanti modi. Per quanto mi riguarda voglio vivere fino all’ultimo istante della mia Vita volendo vivere. Vorrei condividere un’esperienza che ho avuto alcuni anni fa nel nord della California. Ero in una foresta a ore e ore di macchina dall’ultimo villaggio abitato, durante una cerimonia in mezzo alla neve, senza mangiare da sette o otto giorni. Le due insegnanti e guerriere che tutti i giorni di continuo mi mettevano alla prova, un giorno mi parlarono della Morte. Mi fecero fare una cosa strana: mi portarono dentro in casa, aprivano la porta di una stanza, mi facevano entrare e poi dicevano: “Ora sei in questa stanza e sei vivo, sei vivo nel mondo della Vita sulla Terra; ora attraversa questa porta e nascerai in un altro mondo, nel mondo dello Spirito; poi mi facevano girare di nuovo e dicevano: Adesso sei nel mondo dello Spirito: attraversa questa porta e nascerai alla Vita, nascerai sulla Terra.” Non usarono mai la parola Morte, usarono solo la parola passaggio oppure la parola nascita. Entravo in un nuovo mondo, nascevo in un nuovo mondo e preferisco pensare a questo passaggio, a questo rito di passaggio chiamato comunemente Morte, come a una nuova nascita: nascita in un’altra dimensione, in un’altra Vita, chiamiamola così… in un altro mondo. Nella mia Vita ho avuto la fortuna di fare quest’esperienza e da allora la Morte mi spaventa molto meno. Diciamo che l’ho accettata. Accettare la Morte mi fa apprezzare molto di più la Vita e quello che ho ora, qualsiasi cosa sia quello che ora ho. Ora vivo e quando arriverà il mio momento di nascere nel mondo dello Spirito, lo farò con gioia perché avrò vissuto.

 

 

8) La Sua prossima fatica, se non chiedo troppo?

 

Chiaro che ho dei progetti. Il primo progetto è che voglio continuare a vivere il più a lungo possibile. Sono molto attaccato alla Vita; voglio vivere anche se non ho più paura della Morte da tanti anni, però voglio vivere, vivere, vivere, vivere, perché è così bella la Vita, è così bella… Questo è il mio primo progetto. Il secondo progetto è che voglio continuare a scrivere. Ho tanti racconti dentro alla mia testa, ci sono un sacco di cose dentro di me, fuori di me, che vogliono essere raccontate, cantate. Ho voglia di farlo, mi dà molta gioia il farlo, mi fa sentire vivo ed è questo che voglio continuare a fare nel mio futuro. Farlo molto di più di quello che sto facendo ora – se ora posso dedicare tre ore al giorno allo scrivere, vorrei dedicarci otto ore al giorno, dieci ore. Non voglio essere uno stakanovista, mi dà gioia quando lo faccio, sto bene quando lo faccio, bello quando lo faccio, mi diverto quando lo faccio.

Questi sono i miei progetti per il futuro. Poi naturalmente stare con le mie figlie, fare l’amore, stare con i miei amici, viaggiare, ridere, piangere, vivere…vivere, vivere.

 

(appendice 1)

 

Il culto della Dea Madre nella Sardegna Prenuragica

(Articolo che ripropone parte della presentazione del libro del noto archeologo Giovanni Lilliu, “Arte e religione nella Sardegna Prenuragica”. )

 

In questa prospettiva, nel volume del Lilliu il sentimento religioso delle comunità preistoriche

della Sardegna emerge persuasivo e stimolante soprattutto nel capitolo dedicato agli idoletti

rinvenuti nell’Isola.

Si tratta di 133 statuine, di varia tipologia, materia (pietra, osso, argilla) e cronologia: 126

(94,7%) sono femminili, mentre soltanto 5 (5,3%) sembrano essere maschili. Provengono da

tombe (50=37,5%), da grotte e ripari (21=15,7%), da abitati (31= 23,3%), dal

villaggio-santuario di Monte d’Accoddi (11=8,27%), mentre per le rimanenti 20 statuine (15%)

non si dispone di sicuri dati di rinvenimento.

Occorre aggiungere, tuttavia, che la maggior parte degli idoletti raccolti da generici siti

insediativi sono reperti privi di contesto stratigrafico e quindi di preciso significato culturale,

e per questo motivo non è da escludere una loro destinazione funeraria nel senso che

potrebbero appartenere a tombe poste ai margini dell’abitato. Inoltre, parte delle statuine

ritrovate in grotte o ripari rivestono sicura valenza cultuale, così come dobbiamo ipotizzare per

quelle rinvenute nel santuario di Monte d’Accoddi.

Da questi dati emerge che queste figurine della Sardegna preistorica sono in netta prevalenza femminili (94,7%) e che sono in gran parte di sicura destinazione funeraria o comunque legata alla sfera del sacro. Ne consegue quindi che anche in Sardegna, in sintonia con quanto avviene nell’Europa e nel Vicino Oriente, è attestato in modo inequivocabile un culto della Dea Madre, di antichissima tradizione europea ed orientale che, come è noto, affonda le sue radici fin nel Paleolitico. La Grande Madre rappresenta una divinità primordiale, genitrice e nutrice, la sola a detenere il segreto della vita e l’unica con il potere di trasmetterla, a sua discrezione, agli altri esseri umani, agli animali, alla terra, alle piante. Nelle culture preistoriche, quando forse non era ancora ben chiaro il nesso fra concepimento e nascita, la capacità di dare vita ad ogni singolo individuo e la stessa sopravvivenza del genere umano sembravano dipendere esclusivamente dalla donna che rivelava, in modo concreto, di avere in sé un’energia vitale che l’uomo sembrava non possedere. Infatti, solo la donna partoriva e generava apparentemente dal nulla, per partenogenesi, mentre il maschio, che non poteva provare in modo palese il proprio ruolo nel concepimento, pareva sterile ed era escluso da questo universo divino. La nuova vita cresceva nel grembo della donna e vedeva per la prima volta la luce ancora ricoperto del sangue della nascita. E solo la donna poteva nutrire questa nuova vita con il latte del suo seno, assumendo poi nuovamente forme di fanciulla in una continua trasformazione del sé. La Dea Madre poteva inoltre alleviare l’evento traumatico della morte ed assicurare la vita oltre la morte, in una rielaborazione ciclica della nascita come modello culturale e simbolico di rinascita. Il defunto doveva essere sepolto nel ventre della madre terra o in una grotta, e sul suo corpo veniva poi sparsa ocra rossa – il sangue della vita – per evocare la prima immagine che aveva dato di sé nel venire alla luce e di conseguenza assicurargli quasi specularmente, mediante l’uso rituale del sangue o di un suo sostituto simbolico, la rinascita nell’aldilà. È in un quadro ideologico di morte come questo che ben si comprendono e trovano preciso significato i rituali funerari attestati nella necropoli di Cuccuru is Arrius, del Neolitico Medio di Bonuighinu. I defunti, in tombe a fossa o grotticella artificiale, erano deposti in posizione rannicchiata, quasi nel grembo materno, velati di ocra rossa e con accanto il corredo il viatico e una statuina in pietra che rappresentava l’immagine rassicurante della Dea Madre, intesa come tramite fra l’uomo e la divinità, fra ciò che è mortale e ciò che rappresenta l’immortalità.

Tuttavia, anche la Grande Madre, divinità strettamente legata alle comunità agricole, sarà sostituita nel tempo da figure maschili che meglio rappresentavano la funzione maschile in mutate strutture socio-economiche. In termini storici, tale mutamento può essere spiegato con l’imporsi, a partire dall’età dei metalli, di una economia più dinamica e articolata, di nuove esigenze di difesa determinate da conflittualità diffuse ove la forza virile finiva per essere determinante per la salvezza del gruppo sociale. La Grande Dea viene quindi ridimensionata nel suo ruolo e, agli albori del mito, uno dei modi per ridurre la sua autorità è stato quello di farla diventare figlia di un dio padre, moglie di un dio marito, sorella di un dio fratello, madre di un figlio dio e maschio, che appena nato diveniva più importante di lei. In Sardegna, l’insorgere di una figura divina al maschile quale partner della Dea è già attestato nel pieno fiorire del culto della Gran Madre – nella cultura di Ozieri – per la presenza di menhir e di simboli taurini/bovini raffigurati in numerose domus de janas, ceramiche, amuleti. Ma sarà soprattutto nell’Età del Rame che questa nuova società “al maschile”, irrequieta e guerriera, lascerà testimonianza del mutato sentimento religioso soprattutto nelle minacciose statue-menhir armate di pugnale che segnano luoghi sacri e ambiti funerari. Ma se le statuine femminili e le stele figurate rappresentano la religione della Grande Madre, segni di una energia primordiale che regola l’alterna vicenda della vita e della morte, certamente legati ad elementi di pura irrazionalità magica e di superstizione, nel senso sopra indicato di una risposta immediata all’insorgere di un evento negativo, sono invece da considerare gli amuleti fallici per allontanare il malocchio – proprio come nel nostro tempo! – così come quegli oggetti che avevano in sé, nella forma, nel colore o nella materia, virtù di magia difensiva. Ed ecco collane costituite da denti umani o di animali (volpe, cervo, etc.), o pendagli ricavati da zanne di cinghiale nei quali è sottesa scaramantica del corno ricurvo, oppure ancora vaghi di collana conchiglia (simbolo di fertilità), etc.

 

Tratto da: “Arte e religione nella Sardegna prenuragica” di Giovanni Lilliu

Giovanni Lilliu (1914–2012) archeologo,è generalmente ritenuto il massimo conoscitore della civiltà nuragica.Archeologo di fama internazionale, è conosciuto soprattutto per aver riportato alla luce la reggia nuragica Su Nuraxi di Barumini, nel suo paese natale, dichiarata nel 2000 patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO.

 

 

(appendice 2)

 

Citazioni da Riflessioni kabbalistiche sul libro di Diego Manca “La Donna delle Sette Fonti”, di Angelo Da Fano

 

Ed è l’acqua che guarisce, l’acqua che in ebraico si dice maim, mentre cielo è shamaim, ovvero le acque lassù. Il Creatore divise le acque “di giù” dalle acque “di su”, perché all’origine tutto era acqua. Dall’acqua si è formata la vita, tanto che un bimbo nasce con la rottura delle acque; il diluvio purifica la terra; gli Ebrei attraversano le acque del Mar Rosso per uscire dalla schiavitù. L’attraversamento delle acque riguarda sia il trapasso sia il vedere la luce. Ed è il pozzo che riunisce le acque di su, piovane, con le acque sotterranee della terra: le acque superiori rappresentano la saggezza e quelle inferiori l’emotività.

“Pozzo” in ebraico è beer, stesse lettere di barà che significa “creò”, la seconda parola della Torah, da cui deriva briut, “salute”. Guarire è come essere rigenerati, ricreati. La salute, quindi, è legata all’Inizio, ma anche al pozzo, nel senso che collegando costantemente il basso con l’alto, il creato con la fonte creativa, si ottiene il benessere.

Il pozzo di Miriam è il simbolo della sapienza. Il grande kabbalista Arizal non mise mai per iscritto il suo sapere: fu il suo discepolo rabbi Vital[1] a trascrivere le sue lezioni. Ma all’inizio non riusciva a capire nulla di quello che il maestro gli insegnava. Allora l’Arizal lo portò a bere l’acqua del pozzo di Miriam presso Tiberiade e da allora rabbi Vital fu in grado di comprendere ogni insegnamento e di trascriverne le parole.

Il pozzo è saggezza, perché l’acqua è legata alla verità: maim si scrive in ebraico con la lettera mem, che è la lettera al centro dell’alfabeto ebraico, mentre verità si dice emet che si scrive אמת dove la prima lettera a destra è l’alef, prima lettera dell’alfabeto, la prima a sinistra è la tav, ultima lettera dell’alfabeto, e al centro c’è la mem. L’alef rappresenta l’Uno, il collegamento col Divino, mentre la tav è il terreno, l’esistente, la materia; la mem è al centro come il perno della bilancia. Se togliamo da questa parola il collegamento col Divino, resta מת met che è morte. Non c’è vita senza verità: e non c’è vita senz’acqua.

È significativo che la Torah sia detta “Insegnamento di Verità”, ma anche “Sorgente di vita” e “Acqua di vita”.

Dal punto di vista della ghematria[2], la mem vale 40, come i 40 giorni della quarantena, dopo i quali non si è più a rischio di malattia: dunque, l’acqua è completo ristabilimento, guarigione. I 40 giorni nel deserto per purificare lo spirito, che ricordano i 40 giorni dopo il concepimento in cui l’anima discende nel feto; i 40 giorni di diluvio, i 40 giorni di Mosè sul Monte Sinai; e ancora, i 40 anni trascorsi nel deserto dagli Ebrei per purificare le loro anime dopo l’errore del vitello d’oro.

L’acqua è quindi anche purificazione non solo fisica ma spirituale. In ogni comunità ebraica è presente un bagno rituale, il mikveh, una piscina di acqua “viva”, che cioè raccoglie acqua piovana o di fonte, che viene usata per le purificazioni rituali: e il minimo quantitativo lecito è di 40 seim[3]. I convertiti all’ebraismo si bagnano nel mikveh durante il rituale della propria conversione; le donne sposate usano il mikveh dopo il periodo del ciclo, prima di riprendere i rapporti sessuali con il marito; gli utensili non puri vengono

( note : [1] Rabbi Chaim ben Yosef Vital (1543 – 1620) fu uno dei maggiori esponenti della scuola kabbalistica di Safé. Allievo prediletto del Santo Ari, gli successe alla sua morte e cominciò a scrivere tutto quello che aveva imparato dal suo maestro.

[1] In Ebraico i numeri sono rappresentati dalle lettere dell’alfabeto, quindi ad ogni parola è attribuibile un valore numerico. La ghematria è una delle tecniche della Kabbalah per scoprire delle identità di significato nascoste nelle lettere, nelle parole o nelle frasi.

[1] Circa 750 litri.immersi in un mikveh, prima di essere usati; gli uomini vi si immergono prima dello Yom Kippur[4], per essere puri agli occhi di Dio… e dal mikveh deriva la pratica del battesimo cristiano.

Qual è il significato del numero 40? Il 40 rappresenta la metamorfosi, la trasformazione: dopo 40 giorni, il feto di un bambino inizia ad avere una forma riconoscibile e, ritornando ai 40 giorni di diluvio, non si trattò di vendetta o punizione, come superficialmente assunto, ma di riparazione e riconciliazione, di trasformazione e purificazione del mondo, nello stesso modo in cui un mikveh purifica una persona. Lo stesso vale per i 40 anni nel deserto: la nazione che si era ribellata a Dio, si trasforma in una nazione pronta ad aderire al Suo mondo.)

 

Così, anche Maria chiede alle acque del sacro pozzo di Santa Cristina di purificarla:

«Lavami, puliscimi, guariscimi», pregò dentro di sé.

«L’acqua scioglie gli elementi, Maria, li lava, li modifica. È la sostanza dalla quale dipende tutta la vita. Gli Antichi scendevano qui non per lavarsi, ma per pregare. Pregavano Nostra Signora delle Acque di purificarli e guarirli dai loro mali e Lei dava loro una purezza che potevano trovare solo in questi luoghi, perché è l’Acqua la sostanza che lava le impurità dello Spirito.»

Il pozzo che guarisce, come quello di Miriam, è un pozzo di acque femminili, non è quello di Abramo. La lettera mem non rappresenta solo l’acqua, bensì anche l’utero. L’acqua è l’utero della Creazione: dall’acqua le prime forme di vita. In effetti il primo verso della Torah dice «In principio Dio creò i cieli e la terra» e il secondo «… lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Quali acque che non erano ancora state create? Sono il grembo da cui la Creazione emerse. Lo stesso concetto del mikveh: quando se ne emerge si è come ricreati.

 

«Una volta anch’io ero così stupida», proseguì Lucia, «sempre a immaginare cose brutte. Quello che ne ho avuto è che ero sempre di cattivo umore e in più mi sono ammalata del fuoco di Sant’Antonio. Ho incominciato a guarire solo dopo che Tia Nanna mi ha mostrato come fare a lavare i pensieri e a tenerli puliti

Iniziare il processo di guarigione è iniziare a cambiare la propria vita. Parafrasando il grande rabbi Nachman[5], non dobbiamo commettere lo stesso errore di tutti coloro che rinunciano a cambiare perché si sentono imprigionati nelle loro abitudini. Bisogna cercare sempre il bene che c’è in noi, avere sempre pensieri positivi. Comprendere che gli ostacoli che incontriamo sono presenti di proposito per aumentare il desiderio di raggiungere la meta; cercare il sacro nell’ordinario e lo straordinario nella routine; amare la vita perché sacra.

 

“Stare lì le piaceva: l’umidità del luogo aveva un odore particolare, un odore che le ricordava l’infanzia, quando all’età di tre o quattro anni andava a giocare nella cantina di casa sua, in una vecchia vasca di pietra per lavare i panni. Lì passava le ore spruzzando tutt’intorno con una pompa di gomma fino a che sua madre o suo padre non venivano e la facevano smettere, perché consumava troppa acqua, la Preziosa. Nel pozzo c’era lo stesso odore. Immaginò che l’acqua stesse respirando e che quello fosse il profumo del suo alito; pensò a Lei come a una grande Mamma protettiva accanto alla quale si accoccolava, fiduciosa, come talvolta aveva fatto da piccola con sua madre, specialmente nei primi tempi dopo la scomparsa del babbo. Carezzò con la punta delle dita la superficie dell’acqua: era fresca. Vi tuffò la mano e osservò i cerchi concentrici che, partendo dalla sua mano, arrivavano fino al gradino sul quale era accovacciata: le sembrò che l’acqua volesse parlarle e che le onde fossero la Sua lingua. Immerse la mano ancora e ancora e contemplò i cerchi concentrici che partivano da essa: in lei crebbe sempre di più l’impressione che il Pozzo Sacro le stesse comunicando qualcosa, qualcosa di vitale importanza per lei, e che tuttavia non riusciva a decifrare. Si sforzò di capire, di comprendere, ma tutto fu inutile. Qualsiasi cosa le venisse in mente le sembrava banale e stupido, frutto della propria fantasia e basta. Tuffò la mano un’ultima volta e quando la ritirò prese un poco d’acqua nel suo incavo e si bagnò la testa.

«Lavami, puliscimi, guariscimi», pregò dentro di sé.

Una goccia cadde nell’acqua e formò un unico cerchio, perfetto.

Maria seppe istintivamente che quella era stata la risposta del Pozzo Sacro alla sua preghiera. Quando più tardi chiese conferma a Tia Nanna, l’unica risposta che ottenne fu che il cerchio, per gli Antichi, era un modo di pensare”.

 

 

 

note: [1] è il giorno ebraico della penitenza, viene considerato il giorno più santo e solenne dell’anno. Il tema centrale è l’espiazione dei peccati e la riconciliazione.

[1] Rabbi Nachman di Bratslav (1772 – 1810), rivitalizzò l’ebraismo hassidico, la corrente religiosa cosiddetta dei “pii”. Gli insegnamenti di rabbi Nachman continuano ancor oggi a ispirare molti Ebrei nel mondo intero.

 


[1] Rabbi Chaim ben Yosef Vital (1543 – 1620) fu uno dei maggiori esponenti della scuola kabbalistica di Safé. Allievo prediletto del Santo Ari, gli successe alla sua morte e cominciò a scrivere tutto quello che aveva imparato dal suo maestro.

[2] In Ebraico i numeri sono rappresentati dalle lettere dell’alfabeto, quindi ad ogni parola è attribuibile un valore numerico. La ghematria è una delle tecniche della Kabbalah per scoprire delle identità di significato nascoste nelle lettere, nelle parole o nelle frasi.

[3] Circa 750 litri.

[4] è il giorno ebraico della penitenza, viene considerato il giorno più santo e solenne dell’anno. Il tema centrale è l’espiazione dei peccati e la riconciliazione.

[5] Rabbi Nachman di Bratslav (1772 – 1810), rivitalizzò l’ebraismo hassidico, la corrente religiosa cosiddetta dei “pii”. Gli insegnamenti di rabbi Nachman continuano ancor oggi a ispirare molti Ebrei nel mondo intero.

 

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